Innumerevoli ricerche indicano come lo sport sia in grado di svolgere un’azione positiva su disturbi d’ansia e di tipo depressivo. Ma se, come dimostrano tantissime ricerche effettuate in al senso, abbiamo una concreta utilità della pratica motoria su questi disturbi, come mai l’attività fisica non viene caldamente promossa all’interno dei percorsi di terapia come elemento costitutivo della stessa?
Ho cercato di trovare una risposta a questa domanda interpellando Domenico Sinesi, medico sportivo, già direttore del dipartimento di medicina dello sport del policlinico universitario di Bari ma, soprattutto, persona con cui in passato ho fatto grandi chiacchierate aventi per tema “la grande salute” intesa come benessere psicofisico globale.
Io stesso faccio sport (e mi aiuta)
Benché io non possa dire di essere un grande testimonial di benessere psicologico e di equilibrio, per ciò che riguarda il tono dell’umore, non posso non portare una testimonianza che per me è incontrovertibile: fare attività fisica mi fa bene. E quando riesco a farla con discreta continuità, mi sento molto meglio – intendo psicologicamente parlando. A volte accade che passo mattine scarsamente produttive, come intrappolato in crisi di procrastinazione, pensieri disordinati, velleità di evasione.
Allora capisco che quello è il giorno in cui dovrei trovare un’oretta di tempo per me stesso, cambiarmi, indossare le scarpe da running e andare a fare qualche chilometro (tra i sette e i dieci, lo dico per gli altri eventuali runner che stanno sbirciando la pagina). Di solito vado piano. O almeno parto molto piano, poi attacco un po’ di musica o un podcast e tendenzialmente cerco di smettere di pensare, per creare un’armonia tra passo, ritmo e respiro che mi porti fuori da me stesso. In una dimensione che mi piace definire zen (anche se non penso lo sia realmente).
Una volta a casa
Il mio rito personale prevede una doccia veloce, una tazza di caffè e una bottiglia di acqua fresca, rigorosamente frizzante (no, non gelata). A quel punto sento che qualcosa è cambiato. Le idee non sono più affastellate e aggrovigliate. Inizio anzi a lavorare sulle cose e “le faccio fuori” letteralmente, una a una. Spesso recupero anche ciò che ho lasciato indietro. Mi sento soddisfatto.
Dall’aneddotico al razionale
Tuttavia qui si ferma la MIA esperienza personale, che mi piacerebbe potesse diventare consiglio ma che sinceramente ho delle enormi remore nel farlo diventare tale. Ci sono infatti alcuni problemi che restano lì, sospesi. E, dal mio punto di vista, sono i seguenti: è davvero possibile motivare un paziente depresso alla necessità del movimento come vera opzione terapeutica? Come facciamo a dimenticare che il depresso, per definizione, non solo è fortemente demotivato, ma è anche vittima di una stanchezza profonda?
Lo stesso vale per alcuni ansiosi, che magari soffrono di ipocondrie (i cardiofobici, per esempio – categoria alla quale mi onoro di appartenere – sono quelli a cui penso di più in questo momento). Come possono approcciare l’attività fisica in maniera convinta e senza remore se magari temo di rimanere vittima di un infarto che, nella mia percezione della realtà potrebbe essere causato proprio dall’aumento della frequenza delle pulsazioni? Insomma, ci sono molte questioni aperte che rendono l’agganciare questi pazienti verso l’attività motoria un po’ più complesso rispetto a quanto non accada a una persona con problemi differenti.
Una soluzione che è anche culturale e non solo medica
Qui, devo dire, l’esperienza del professor Sinesi è di grande aiuto. Nel momento in cui postula la necessità di avere a disposizione un “medico del benessere”, in grado di lavorare in equipe con gli altri specialisti che si occupano di questi problemi, spiega in maniera chiara come a volte il peregrinare tra specialisti finisce con il sommare le soluzioni in modo potenzialmente dispersivo, anziché razionalizzare le stesse. Se sono cardiofobico e vado dal cardiologo, rischio una prescrizione che a sua volta si somma con quella dello psichiatra, che a sua volta potrebbe andare in conflitto con quella del medico generico…
L’evidenza è che i disturbi della sfera emotiva sono disturbi complessi e che vanno trattati in maniera multidisciplinare. Qui, cari lettori, abbiamo un gran bel lavoro da portare avanti.
Ah, sì. nella foto sono io.