Il primo attacco (di panico) non si scorda mai
Ho cominciato a soffrire di attacchi di panico attorno ai 12 anni di età. Ricordo bene anche il momento: ero in bicicletta e avevo appena bevuto (era estate e faceva molto caldo) una bottiglietta di acqua minerale frizzante piuttosto fredda. A quel punto, più che un malessere fisico, un pensiero: “e se mi venisse una congestione?”. Da lì, un terrore di morire che non aveva mai avuto precedenti. La certezza di essere sull’orlo del baratro, sufficientemente lucido da rendermene conto.
Dovete sapere che “la congestione” è sempre stata lo spauracchio di ogni ragazzino cresciuto tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Lo è stata più del terrorismo e quasi quanto le sostanze stupefacenti. La nostra educazione vedeva nel ghiaccio lo strumento del demonio. L’acqua fredda era considerata un veleno e il solo pensiero di fare un bagno in mare prima di tre ore dopo avere consumato anche solo una pesca, rappresentava una trasgressione che oggi Achille Lauro scansate proprio.
Quando è diventato un disturbo vero e proprio
Quel primo episodio venne subito taciuto e presto, dimenticato. La vera sofferenza è iniziata anni più tardi, diciamo fine dell’esperienza liceale, una fase molto diversa della mia vita, a cui darò parole in qualche altra occasione, se ce ne sarà bisogno. Oggi, a tanti anni di distanza da quella congestione della psiche, ricordo quell’esordio con una certa tenerezza e non più come l’inizio di un tunnel molto buio e pieno di insidie.
Ma se è vero che il primo amore non si sorda, nemmeno il primo attacco si dimentica realmente. E così, unendo il me stesso dodicenne alle prese con una bottiglietta d’acqua gelata al me stesso cinquantunenne che picchia dei tasti, eccomi a presentare l’esperto che ho coinvolto nell’intervista qui sotto.
Gli attacchi e il disturbo sono cose diverse.
Lo dice l’esperto
Lui è Giampaolo Perna, docente straordinario di Psichiatria presso la Humanitas University. Lo conosco da molti anni (2008) e abbiamo anche scritto un libro insieme, Psicofitness (Sperling & Kufper). Il professor Perna mi ha aiutato già nel 2008 a comprendere una distinzione sottile ma decisiva: avere attacchi di panico, non significa soffrire del disturbo omonimo.
È, invece, quando gli attacchi condizionano il modo di vivere, pensare, ci fanno sentire in una condizione di costante disagio e pericolo che il disturbo diventa realmente tale. E, a quel punto, l’attacco non deve nemmeno manifestarsi in tutta la sua violenza: resta lì, sotto traccia, come monito invalidante.
Con chi ne parlo?
Qui entriamo in un campo difficilissimo, che non esauriremo certo qui e che, anzi, richiederà più interventi, interviste e approfondimenti. Chi soffre di disturbo di panico vive in una situazione di scissione costante: da una parte una sofferenza invalidante e dall’altra l’impossibilità di trovare parole adeguate per descriverla. Con il rischio altissimo di finire in una spirale di demoralizzazione e depressione.
La medicina di base, per tantissimi anni, non aveva gli strumenti per eseguire diagnosi appropriate e la varietà dei sintomi portava a odissee diagnostiche che potevano terminare con frasi del tipo: “lei non ha niente”. A volte ci vogliono addirittura anni, per questi pazienti, prima di giungere a una diagnosi soddisfacente. E sono anni in cui il disturbo cronicizza, allungando così i percorsi di guarigione e condizionando più a lungo il comportamento del paziente.
E nel frattempo…
Per fortuna oggi l’accesso a una diagnosi è in genere più rapido di un tempo, ma ciò che davvero fa la differenza è arrendersi all’evidenza che un disturbo specifico va curato dallo specialista di riferimento. A prescindere dal fatto che esiste un dibattito tra operatori per cui per qualcuno il panico è una questione prettamente emotiva, mentre per altri si tratta di un disturbo combinato tra corpo e mente, la prima cosa che si deve fare è accettare il disturbo e trattarlo per ciò che è, senza eroismi, scorciatoie, senza ritenere che la volontà da sé sia sufficiente. Raramente lo è.
Al contrario se vogliamo recuperare le persone che vivono situazioni di difficoltà da un punto di vista psicologico ed emotivo, possiamo essere realmente di aiuto incoraggiandole a prendersi cura di sé ed esercitando empatia, gentilezza, dandoci la possibilità di essere aperti e accoglienti verso i loro momenti di difficoltà, senza giudicarli.
Questo vantaggio individuale, nel lungo periodo, diventa un vantaggio collettivo, perché ogni individuo, messo nelle condizioni di poter esprimere se stesso libero dalle gabbie del condizionamento, contribuisce positivamente al progresso culturale e sociale del contesto in cui agisce.